AREA
OMOGENA DELLA NEVE L’ANNOSO PROBLEMA DELLA SALVAGUARDIA AMBIENTALE VERSUS IL POTENZIAMENTO DEI BACINI
SCIISTICI
Già
dall’autunno del 2009 tre Comuni dell’Altopiano cominciarono a lavorare insieme
riprendendo alcuni progetti, forse oramai poco innovativi, per rafforzare
l’offerta turistica complessiva: pensando all’ampliamento dei bacini sciistici.
Ma
la montagna è in crisi: c’è la Costituzione (articolo 44, «La legge dispone
provvedimenti a favore delle zone montane»), secoli di storia e di cultura (la
montagna ha fatto la fortuna dell’Italia), ma la scure è arrivata su un territorio
vitale che ora agonizza, basti pensare alla chiusura delle comunità montane. Da
più parti arrivano appelli per «una nuova politica per la
montagna, ispirata a un’azione di prevenzione», contro i dissesti, gli abusi
strutturali e le inondazioni, arriva dal CAI, con un documento sottoscritto da
Touring, Fondo per l’Ambiente, WWF, Italia Nostra e Legambiente. «I parchi non
hanno più fondi - dice Michele Colonna, presidente del CAI Piemonte -: le
Comunità scompariranno, l’unione dei Comuni avviene in alcuni casi senza
criteri…….senza interlocutore pubblico come immaginare un futuro?».
I
Comuni dell’area omogenea in questo contesto all’indomani del terremoto del
2009 rilanciarono alcuni interventi strategici come la realizzazione della
galleria di Serralunga (molto osteggiata per l’impatto ambientale prodotto e
scarsamente mitigato) e pianificarono la
connessione sciistica tra la Magnolia e Campo Felice. Il processo di studio
coinvolse anche un gruppo di ricerca dell’Università La Sapienza di Roma, già
interessato per il Comune di Rocca di Mezzo e che iniziò a lavorare così per
l’area omogenea. Fu imbastito un dialogo istituzionale ed operativo con gli
amministratori e forse poco con le comunità (almeno a Lucoli) che, con tesi
equilibrate e politicamente corrette era volto a garantire la messa in
sicurezza del territorio (sanando e recuperando situazioni di rischio anche
antecedenti al sisma) nello sforzo di riattivare processi e progetti di
sviluppo in atto prima del terremoto (ma ancora attualizzabili? Ricordiamoci
che la montagna non è solo un luna park. È anche un modello di vita
parsimonioso, ecologico, sostenibile. ) e di individuare nuove possibili linee
di sviluppo in grado di rilanciare l’economia dell’altopiano.
Quindi
la parola d’ordine fu potenziamento dell’offerta turistica attraverso la
costruzione di infrastrutture, volendo anche superare i temi della tutela
ambientale trasformandoli in evoluzione della cultura agro-pastorale del
territorio che è sempre stata alla base della biodiversità montana. I driver
dello sviluppo identificati dall’Università la Sapienza furono tre:
a)
Potenziamento della coesione territoriale;
b)
Incremento della qualificazione dell’offerta turistica;
c)
Miglioramento dell’immagine e delle prestazioni dei centri urbani.
Sono
passati quasi cinque anni dal sisma e dall’elaborazione del piano strategico
territoriale e gli unici risultati raggiunti riguardano l’apertura della
Galleria di Serralunga (che non sembra abbia miracolato il territorio) la
ricostruzione di alcuni comprensori abitativi (ma, ad esempio, non i borghi di
Lucoli di più antica costruzione) ed ecco che si batte cassa con il progetto clou
quello “dell’ampliamento dei bacini sciistici di Ovindoli e Campo Felice e loro
interconnessione ai fini della creazione di un comprensorio sciistico integrato
e competitivo a livello nazionale” la cui delibera attuativa è stata già
pubblicato nell’albo pretorio del Comune di Rocca di Mezzo.
Peccato
che questi lavori ed infrastrutture debbano essere realizzati nell’area del
Parco Velino Sirente.
Il
dibattito intenso sul futuro dei parchi del nostro paese tra i suoi maggiori
capi di critica annovera, specialmente per i parchi nazionali, la mancata realizzazione
dei piani previsti dalla legge quadro. Anche i Comuni dell’area omogenea della
neve si aggrappano a questa tesi che viene utilizzata come prova innegabile e
incontestabile, se non del fallimento, certamente di qualche cosa che
giustificherebbe ormai il passaggio ad una diversa gestione delle aree protette,
al loro pieno sfruttamento turistico con la costruzione di nuove infrastrutture
da destinare ad un turismo in fase calante.
Siamo in Italia e come molti altri aspetti
istituzionali l’attività della pianificazione e lo stesso valore del concetto e
della regola hanno avuto fasi concrete e comunque propositive con risultati tangibili
anche se spesso deludenti ma purtroppo molte fasi di oblio.
Ciò nonostante l’idea che il sistema
istituzionale, dallo Stato agli enti locali, doveva ricorrere a “strumenti di
pianificazione” – basta ricordare lo sforzo per indurre i comuni a dotarsi di
un piano regolatore (quanti lo hanno?) – è ancora valida soprattutto se serve a
criticare: tutti aspettano il piano del Parco Velino Sirente.
Quando nel ‘91 fu varata la legge quadro
sulle aree protette si definì che i parchi regionali dovevano dotarsi di un piano ‘sovraordinato’ agli
strumenti di pianificazione territoriale sia comunali che provinciali. La
complicata idea di un piano ‘sovraordinato’,
sancito da una legge nazionale suscitò giustificate reazioni e timori che
furono in parte superati prevedendo non uno bensì due piani: un piano di
carattere fondamentalmente ambientale, coerente con le finalità di tutela assegnate
agli enti parco, e un piano socio-economico che in un certo senso ‘recuperava’
aspetti che molte amministrazioni, specialmente locali, temevano sarebbero
stati penalizzati e sacrificati, diciamo così, sull’altare delle politiche di
protezione. L’art. 7 della legge quadro sintetizzava le materie, il terreno, le
fonti di finanziamento a cui avrebbe dovuto ispirarsi concretamente il piano
non a caso affidato alle particolari attenzioni delle comunità del parco
piuttosto che a quelle dell’ente parco.
Forse non tutti sanno o ricordano che l’art. 7 fa riferimento al
restauro dei centri storici, al recupero di nuclei abitati rurali, a opere
igieniche e a molto altro ancora a conferma di una nuova concezione e visione
delle tematiche ambientali.
Fu questo anche un modo, per tranquillizzare le amministrazioni
locali, le quali temevano che la ‘specialità’ del parco e la ‘sovraordinazione’
del piano avrebbe espropriato in qualche misura l’ente elettivo di importanti
competenze e prerogative per assegnarle ad un ente non elettivo. I due piani
servirono insomma a sbloccare una situazione che rischiava di impantanarsi.
Sono trascorsi 20 anni dall’approvazione della legge e l’altopiano
di Campo Felice è ancora campo di battaglia tra interessi disordinati di business
delle amministrazioni locali ed obiettivi “sovraordinati” di tutela
dell’ambiente montano in area SIC.
Siamo convinti che sia giunto il momento di fare un
bilancio complessivo per capire cosa deve essere confermato e cosa invece è
bene e necessario rivedere tenendo conto anche di quanto è successo nel
frattempo sull’altopiano di Campo Felice, dove sciagurati interventi
infrastrutturali e di edilizia hanno prodotto profondi cambiamenti ambientali
cementificando ad esempio la torbiera con parcheggi e strade sovrabbondanti, (ciò
ha provocato la formazione di un’area di allagamento vicino alla Galleria di
Serralunga), citiamo anche il manufatto denominato skydrome mai collaudato,
dismesso ed in rovina e che probabilmente dovrà essere abbattuto.
Noi ci appelliamo alla governance
del Parco Velino Sirente auspicandola come una manifestazione di volontà forte
ed efficace da concretizzare a breve con un piano ambientale capace di dominare
gli “appetiti” infrastrutturali di un ipotetico business.
Sappiamo che il compito è complesso soprattutto in tempi di crisi,
dove le politiche di programmazione e pianificazione ai più vari livelli e comparti segnano il passo da troppo tempo. Ciò vale per
la legge nazionale sul governo del territorio, vale per i piani di bacino, vale
per i piani o progetti previsti dalle legge 426 (Alpi, APE, Coste etc), vale
per i piani paesistici e molto altro ancora. Insomma vale per tutti quegli
aspetti definiti felicemente ‘invarianti ambientali’, ossia momenti ai quali
debbono rifarsi e sottostare le varianti ambientali.
Chiediamo all’Ente Parco di tenere duro perché avrà pure un
significato se la Corte europea in una sentenza del 2007 affermò che
«l’ambiente costituisce un valore» e che «gli impegni economici e perfino
alcuni diritti fondamentali come il diritto di proprietà, non dovrebbero vedersi
accordare la priorità di fronte a considerazioni riguardanti la tutela
dell’ambiente, in particolare laddove lo stato abbia legiferato in materia».
Crediamo nel ruolo dei parchi dai quali dobbiamo ripartire anche
per salvaguardare l’altopiano di Campo Felice, concertando soluzioni
accettabili anche in termini socioeconomici, ma partendo dal concetto che l’Altopiano
non è antropizzato e che il suo ricchissimo habitat naturale giustifica anche l’adozione
di classificazioni rigide, indicazioni e graduatorie di valori altrettanto
rigidi di zona, da studiare a tavolino e da difendere.
Noi non dimentichiamo che i parchi regionali, lungi dal
danneggiare l’operato, le competenze dei comuni o delle province, hanno aiutato,
hanno costretto con le buone maniere le amministrazioni a misurarsi su
questioni e aspetti che altrimenti sarebbero rimasti nel buio.
Il Gruppo degli ambientalisti dell’Organizzazione Regionale Pro Natura Abruzzo, con le Federate NoiXLucoli Onlus e Pro
Natura l’Aquila, è a disposizione per un qualsivoglia lavoro di sviluppo di
area nella tutela sul quale collaborare.
Testo liberamente tratto dal libro: Piani per i Parchi a cura di
Massimo Sargolini, Edizioni ETS. Prefazione di Renzo
Moschini. http://www.edizioniets.com/Priv_File_Libro/1459.pdf
Sulla
programmazione strategica “dell’area omogena 9” spunti tratti dalla pubblicazione
"RICOSTRUZIONE di TERRITORI” elaborata dall’Università la Sapienza di
Roma, facoltà di Architettura ed i cui testi sono stati prodotti da Lucina
Caravaggi e da Cristina Imbroglini. (Edizioni Alinea Editrice–Firenze).